Laboratorio Marxista | ANSWER is not the answer (seconda parte)
Laboratorio Marxista, ANSWER is not the answer. Riflessioni su pacifismo, antimperialismo e guerra alla vigilia dell’aggressione all’Iraq, 60 pag., Autoproduzioni, 2003-2014, Prima edizione: gennaio 2003, ristampato nel luglio 2014 per la raccolta Quattordici anni, EBOOK A5, COPERTINA

Se la costruzione di una alternativa di società al capitalismo potesse realizzarsi nella cornice di uno scontro “democratico” per il consenso, se fosse possibile eliminare la (ineliminabile) disparità di mezzi per la formazione di questo consenso, se la struttura sociale ed economica potesse essere effettivamente riformata senza generare la reazione violenta dei poteri dominanti… allora in quel caso i movimenti di opinione potrebbero diventare rivoluzionari semplicemente… cambiando opinione e i più visionari dei desideri potrebbero effettivamente trasformarsi in realtà [1].
Ma le cose non stanno così.
I pacifisti possono anche illudersi che fiaccole e candele fermeranno la mano armata degli imperialisti. Possono illudersi che un sistema sociale che costringe alla fame più di 800 milioni di persone, che ne fa morire centinaia di migliaia ogni anno per fame, guerre, malattie, carestie, lavoro, un sistema che impedisce a decide di milioni di malati di AIDS di curarsi, possa essere fermato con la forza ipnotica della “ragione”. Possono quindi limitarsi alla ricerca di ampi consensi formali e alla denuncia (anche molto radicale [2]) delle nefandezze del sistema. “Dixi et salvavi animam meam”.
Ma gli antimperialisti possono fare altrettanto?
Il movimento contro la guerra crescerà di intensità con l’inizio dei bombardamenti (per emozione) per poi stabilizzarsi successivamente ed esaurirsi con il procedere della guerra (per assuefazione). È sempre andata così e non c’è ragione per non prevedere che anche stavolta non sia lo stesso.
Decine di milioni di persone si muoveranno in ogni parte del mondo per dire “no alla guerra” e “sì alla pace”.
Ma la stragrande parte di questi milioni di “mobilitati” dimenticherà, come ha dimenticato in questi 10 anni, che in Iraq con la “non guerra” dell’embargo e dei bombardamenti non autorizzati sulle “no-fly zones” (e non solo) sono morti milioni di persone [3] e si è avuto un pesantissimo arretramento a condizioni di vita di semi-sopravvivenza per la gran parte della popolazione irakena.
Possono gli antimperialisti sostenere e difendere questa “pace”?
La “pace” della fame, delle malattie, dello sfruttamento… è “pace”?
Contro questa “pace” noi diciamo che esiste una guerra che i popoli possono accettare e cioè la guerra che pone fine al sistema che produce le guerre, la guerra di classe.
Il patrimonio di consenso interno e internazionale che gli USA avevano acquisito con l’abbattimento delle “torri gemelle” si sta progressivamente esaurendo (soprattutto all’esterno).
Ormai, la retorica dell’eroismo civile del pompiere cede il passo alla retorica militare dei “nostri ragazzi” che vanno a difendere la patria dal “terrorismo” e dall’ipotetico uso di “armi di distruzione di massa” (peraltro quasi tutte prodotte e possedute da paesi imperialisti).
Sempre più ampi settori popolari capiscono che l’Iraq non è un pericolo reale per la loro “sicurezza”, ma semplicemente un ostacolo per gli interessi strategici nell’area degli USA e dei suoi alleati.
Malgrado questo, nelle vene della gran parte della cosiddetta “opinione pubblica” americana (e non solo americana), principalmente della classe media, scorre una discreta dose di cinismo.
Più o meno consapevolmente molti sanno che se gli USA non portassero avanti la loro politica di aggressione e ingerenza militare in Medio Oriente, in Asia centrale, in America Latina… non potrebbero mantenere la propria leadership internazionale e questo provocherebbe un drastico peggioramento anche delle loro condizioni di vita.
Per questa ragione buona parte dell’opinione pubblica “chiude un occhio” sulle aggressioni imperialiste che di volta in volta vengono realizzate.
La coalizione ANSWER e le iniziative che promuove (come quella del 18 gennaio) vengono appoggiate da settori politici e sindacali legati all’area “democratica” (dal reverendo “democratico” Jesse Jackson [4] fino ad intere sezioni dell’AFL-CIO [5]) [6] ai quali si dovrebbe tuttavia ricordare che al tempo dell’aggressione imperialista alla Jugoslavia non c’erano Bush e i repubblicani a sparare, ma bensì Clinton e i “democratici”.
Dopo la sconfitta di Gore alle presidenziali e la ulteriore sconfitta nelle elezioni di “mid term” il Partito Democratico cerca come può di ostacolare il consenso derivato a Bush dagli attacchi dell’11 settembre e che potrebbe derivargli anche da un successo politico-militare nella campagna in corso (specie dopo i magri risultati della guerra contro i talebani e i persistenti problemi dell’economia).
È così inverosimile pensare che i “democratici” possano adottare una strategia su due livelli, appoggiando ufficialmente la politica estera dell’amministrazione e le sue posizioni a favore della guerra [7] (sia per non essere attaccati politicamente, sia perché effettivamente la politica estera USA è realizzata nell’interesse – cioè per la difesa degli interessi – degli USA) e nello stesso tempo mobilitando la propria base nel movimento contro la guerra, per smarcarsi da Bush presso i settori dell’opinione pubblica ostili alla guerra, candidandosi ad incassarne l’appoggio?
Dobbiamo riconoscere che alcune delle realtà che animano ANSWER – come l’International Action Center di Ramsey Clark – si sono mobilitate con forza anche contro le guerre in Jugoslavia o in Afghanistan e che il loro lavoro di contro-informazione e di contro-orientamento è stato importante ed efficace.
Ciò non toglie che anche il partito democratico intenderà giocare un ruolo nel movimento e che proprio l’“insospettabilità” della coalizione potrebbe rendere tutta l’operazione ancora più interessante.
È così inverosimile ritenere che nel successo delle mobilitazioni promosse da ANSWER vi sia anche questa dinamica?
Noi pensiamo che non lo sia.
Del resto, un’analoga operazione si sta sviluppando in Italia.
Settori del centro-“sinistra” che nel 1999 – direttamente o indirettamente – appoggiavano il governo dell’aggressione alla Jugoslavia oggi si schierano contro la guerra in Iraq [8] (ormai anche ufficialmente appoggiata dal governo di destra) per sgambettare Berlusconi e provare a creargli qualche difficoltà.
Per condurre questa operazione senza esporsi troppo – e, anche qui, senza dover essere richiamato alla sua passata azione di appoggio attivo alla guerra in Kosovo [9] – il centro-“sinistra” tiene un atteggiamento ambiguo a livello istituzionale (rifugiandosi dietro le risoluzione dell’ONU) mentre nel contempo mobilita la sua base (cattolica, del volontariato, “girotondina”, sindacale, no global [10]…) su iniziative lanciate magari da Social Forum o affini, peraltro sempre più “eterodiretti” dalla CGIL e – dunque – dai DS [11].
Sarebbe “perfetto” se anche in Italia si sviluppasse una coalizione come ANSWER (magari proprio ANSWER, che infatti viene già sostenuta, almeno nelle iniziative pubbliche, da un arco di forze sempre più ampio e che inevitabilmente si farà sempre più “arcobaleno”).
Con la scusa della lotta contro la guerra tutti si purificano nell’acqua “santa” del movimento. “Scurdamm’ o’ passato”; l’importante è mobilitarsi ed essere tanti, più tanti che si può, perché in fondo l’obbiettivo è fare semplicemente propaganda alle proprie proposte politiche oppure spostare la maggiore parte possibile di opinione pubblica contro Berlusconi (e non contro la guerra imperialista, obbiettivo che potrebbe rivelarsi pericolosamente controproducente quando, con Berlusconi tornato ad Arcore e Prodi-Cofferati a Palazzo Chigi, dovesse presentarsi la necessità di una nuova guerra “umanitaria”).
A noi, ovviamente, non dispiacerebbe affatto la cacciata di Berlusconi.
Anzi, siamo tra coloro che ritengono che sia necessario indicare questa parola d’ordine. Se Berlusconi cadesse per effetto delle lotte sociali dei lavoratori o del movimento contro la guerra sarebbe un fatto politico enorme (sebbene assolutamente improbabile).
Ma a differenza dei girotondini e dei no global noi consideriamo la cacciata del governo Berlusconi solo un punto di (ri)partenza per spazzare via tutti i partiti di regime e il regime capitalistico nel suo insieme.
Per noi la lotta contro la guerra e il governo Berlusconi oggi e contro la guerra e il governo dell’Ulivo (di ieri e di domani) sono parte di una medesima lotta contro l’imperialismo.
Dicevamo in precedenza che tutti i principali mezzi di informazione di massa sono saldamente nelle mani del potere e che, per questa ragione, è ragionevole prevedere che gli attuali equilibri di consenso ben difficilmente potranno modificarsi nel breve-medio termine.
Questo non è decisivo per noi (per il ragionamento che facevamo all’inizio). È però decisivo per i pacifisti e per coloro (come ANSWER e i suoi sostenitori) che proponendosi di “fermare la guerra” sviluppano solo l’aspetto quantitativo delle mobilitazioni… i quali devono porsi il problema della raggiungibilità degli obbiettivi di lotta che indicano.
A nostro avviso, la guerra non può essere fermata.
Non la fermeranno alcuni paesi imperialisti (come Francia e Germania) che la temono proprio per le ragioni che la determinano.
Non la fermeranno Cina e Russia che osservano con preoccupazione la penetrazione militare degli USA in Asia centrale e in Asia meridionale.
Non la fermeranno gli irakeni, né alcuna coalizione di paesi arabi.
Tanto meno la fermeranno i pacifisti, americani o di qualsiasi altro paese (e meno che meno attraverso “Internet poll” come Vote no war [12]).
L’unico elemento potenzialmente in grado di fermare effettivamente la guerra contro l’Iraq (o di rovesciarne gli esiti) è la mobilitazione [13] delle masse popolari arabe che al momento, però, sono ancora subalterne alle proprie borghesie nazionali quasi sempre colluse o alleate della borghesia imperialista (classe internazionale per definizione).
Alcune esperienze di lotta che vengono portate avanti in Medio Oriente da organizzazioni “islamiche” [14] (nel senso che i loro principali riferimenti ideologici sono di carattere religioso) contribuiscono in modo importante alla Resistenza, ma non hanno la forza militare per sostenere la difesa del popolo irakeno e spesso la loro visione strategica è poco più di una unità della nazione araba sotto la bandiera dell’islam [15] (che peraltro è a sua volta diviso, ad esempio tra sunniti e sciiti).
Alcuni settori islamici potrebbero addirittura considerare l’eliminazione di Saddam Hussein e la dissoluzione dell’impianto laico dello stato irakeno (o addirittura la divisione dell’Iraq) una buona occasione per costruire un nuovo potere islamico nel sud del paese (ad “egemonia” sciita) [16].
È vero che in alcune aree le organizzazioni islamiche rappresentano un elemento di resistenza e di contrapposizione agli interessi imperialisti e che quindi non è possibile ignorare l’attività di queste organizzazioni nell’ambito di una lotta per la liberazione nazionale in tali aree.
Meglio non cedere, però, alla tentazione di considerare il “mondo islamico” un blocco unitario privo di articolazioni o contraddizioni interne e, meno che mai, un blocco unitario “antimperialista” con il quale allearsi in uno “scontro di civiltà” rovesciato rispetto a quello proposto dagli imperialisti.
Non sarebbe un gran passo avanti se per lottare contro la crociata razzista anti-islamica e anti-araba ci si dovesse convertire tutti all’islam.
È vero che in Palestina Hamas e Jihad islamica fanno “fronte comune” – più o meno organicamente – con le altre organizzazioni (laiche) del movimento di resistenza palestinese.
E che in parte questo è vero anche per il Libano e gli Hezbollah.
Ma Libano e Palestina sono due paesi sottoposti per anni all’occupazione militare israeliana e la stessa cosa non vale per gli altri paesi.
Le borghesie nazionali arabe, che formalmente si rifanno ai dettami dell’islam (l’Arabia Saudita, per esempio), svolgono un ruolo ben diverso da quello svolto dai militanti di Hamas nella striscia di Gaza e questo perché, aldilà dell’islam, esiste una differenza di classe dalla quale non si può prescindere.
Islam o non islam, nei campi profughi libanesi, giordani o palestinesi si vive un vita assai diversa da quella che si vive nei sontuosi palazzi dei petromonarchi arabi “soci in affari” dell’imperialismo e del sionismo.
E questa differenza di classe è decisiva per poter sviluppare un’analisi materialistica dei rapporti sociali di produzione nel mondo arabo o in quello islamico (come in qualsiasi altro “mondo”).
Inoltre, la rinascita su larga scala dell’“islam politico” – fenomeno usato spesso dai paesi imperialisti come strumento di controllo nell’area [17] – è anche il sintomo della debolezza di una proposta politica “progressiva”.
Non a caso il “ritorno di fiamma” dell’islam politico coincide con l’esaurimento del ciclo di lotte anti-coloniali, antimperialiste e rivoluzionarie che aveva caratterizzato la fase precedente.
L’islam politico assomiglia ad una sorta di riproposizione in chiave “religiosa” e “tradizionale” del nazionalismo arabo (o pan-arabismo)di Nasser.
Con la differenza che il pan-arabismo nasseriano si fondava su una concezione “moderna” dell’autonomia della nazione araba (possibile grazie alla posizione strategica e alle ricchezze naturali), mentre l’islam politico suggerisce una visione “pre-moderna” di questa autonomia basata su una identità storica e religiosa.
In un certo senso l’opposizione del mondo islamico alla dominazione culturale e politica occidentale si presenta in versione “reazionaria” – letteralmente come reazione [18] – e non, come sarebbe auspicabile, in versione “progressiva” (cioè orientata verso il socialismo).
In altro senso l’islam viene a costituire quel necessario elemento di “identità” e di “appartenenza” (anche nelle comunità immigrate dei paesi imperialisti) senza il quale non può esistere resistenza e lotta collettiva.
Per questa ragione – oltre che per il fatto di costituire una spina nel fianco dell’imperialismo – anche l’ipotesi di autonomia che si esprime attraverso l’islam deve vederci osservatori attenti, non fosse altro perché il “mondo islamico” è composto di oltre 1 miliardo di persone e rappresenta un crogiolo di dinamiche di ogni tipo.
Ciò non toglie che il rapporto sociale fondamentale sia pur sempre un rapporto di classe e che, da questo punto di vista, l’opzione islamica costituisca oggettivamente un enorme arretramento storico rispetto all’opzione comunista e rivoluzionaria (e talvolta anche solo democratica).
La religione, anche quella islamica, è e resta oppio per i popoli.
Nonostante questo dobbiamo combattere sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista politico-culturale la crociata razzista anti-islamica che sta imperversando in Europa e negli USA, e su cui il potere capitalistico e i suoi scagnozzi neo-nazisti tentano di impostare in senso reazionario la mobilitazione di masse popolari sempre più in fibrillazione per le conseguenze sociali della crisi economica e politica dell’imperialismo [19].
L’attacco verso l’esterno (la guerra) e quello verso l’interno (la repressione e la campagna contro l’islam) sono strettamente correlati.
Innanzitutto, già da tempo è in atto una sorta di legittimazione preventiva alla repressione che potrebbe tornare utile nella fase di guerra per giustificare attacchi alle comunità immigrate e al movimento rivoluzionario accusato di “collusione con gli islamici” [20].
La guerra verso l’esterno potrebbe essere l’occasione per un attacco su larga scala anche sul fronte interno; da qui la necessità di costruire e sviluppare in tutte le forme possibili la solidarietà e il mutuo soccorso nella lotta contro la repressione che è e sarà al tempo stesso sociale e politica, di massa e selettiva. Nello stesso tempo sviluppare la solidarietà di classe con quei settori proletari, magari poco politicizzati, in misura sempre maggiore immigrati, con i quali i proletari che si battono contro l’imperialismo hanno sempre diviso, dividono – e, probabilmente, sempre di più divideranno – le galere.
Note
[1] Come quelli di sostituire l’economia di mercato introducendo redditi di cittadinanza, Tobin Tax, commerci equi e solidali, banche etiche…
[2] Cfr la lettera aperta a Bush di Robert Bowman, vescovo di Melbourne Beach in Florida, ex-tenente colonnello e combattente nel Vietnam intitolata “Noi statunitensi siamo bersaglio del terrorismo perché sosteniamo tutte le dittature”.
[3] La FAO parlava di 1 milione di morti già nel 1995: “Più di un milione di iracheni sono morti – 567.000 dei quali bambini – come conseguenza diretta delle sanzioni economiche …”, FAO, 1995. Cit. in Gli effetti delle sanzioni, Campagna per la dissociazione unilaterale dalle sanzioni economiche all’Iraq, promossa da Un ponte per… e Comitato Golfo.
[4] Il quale, parlando alla manifestazione di Washington del 18 gennaio e ricordando per la milionesima volta il povero Martin Luther King (che di sicuro si rigira senza posa nella tomba), ha evidenziato fisicamente con la sua presenza l’internità al movimento dei “democratici” “di sinistra”, “di base”, “afro-americani”… e , riferendosi alla politica di Bush, ha detto: “We’re not fighting about security. We’re fighting about hegemony and oil and defense contracts” (“Non stiamo lottando per la sicurezza. Stiamo lottando per l’egemonia, il petrolio e i contratti militari”). Insomma tutta “un’altra” storia rispetto a quella della guerra in Jugoslavia…
[5] La AFL-CIO è la principale organizzazione sindacale degli USA e della ICFTU (la federazione mondiale dei sindacati “liberi” di cui fanno parte, oltre a CGIL-CISL-UIL, anche sindacati come la venezuelana CTV impegnata – su ordine di Washington – nel tentativo di golpe contro Chavez). L’AFL-CIO è stata promotrice, sotto la regia della CIA e del Vaticano, della scissione dalla CGIL degli anni ’40 e della nascita della CISL. Recentemente, decine di migliaia di lavoratori della AFL-CIO hanno partecipato alle manifestazioni di Seattle del 1999 contro il WTO chiedendo all’amministrazione Clinton l’applicazione di misure protezionistiche nei confronti delle importazioni dall’Europa.
[6] http://www.blackcommentator.com/26/26_issues.html.
[7] Vedi le dichiarazioni di Bill Clinton che in un suo recente viaggio in Europa ha espresso il proprio sostegno a Bush in caso di attacco oppure le unanimi “standing ovations” riservate a Bush durante il recente discorso sullo stato dell’Unione.
[8] I DS, ad esempio, già paladini dell’intervento “umanitario” in Kossovo e della introduzione dei lager per immigrati con la Turco-Napolitano, hanno ufficializzato la propria adesione alle manifestazioni europee del 15 febbraio prossimo contro la guerra.
[9] Peraltro decisa allora dal governo D’Alema senza neppure consultare il Parlamento, cosa che Berlusconi ha già dichiarato di voler fare dimostrandosi così più “democratico” e “rispettoso della Costituzione” degli stessi centro-“sinistri” (in realtà per cercare di dividere l’Ulivo come quasi sempre è accaduto in materia di politica estera).
[10] Al cui interno, non dimentichiamolo, qua e là partecipano esponenti di partiti (come i Verdi o il PdCI) o sindacali (della CGIL e, soprattutto, della FIOM) che sono organici al progetto dell’Ulivo. Pensiamo a Sabattini e a Rinaldini, rispettivamente segretario uscente e entrante della FIOM – organizzazione da sempre parte organica del movimento dei Social Forum -, che hanno sottoscritto assieme a Giampaolo Patta, già leader di Alternativa Sindacale e oggi di Cambiare rotta (area programmatica “di sinistra” della CGIL), un documento per la discesa in politica di Cofferati (ed anzi per costituzione di una “rappresentanza politica del mondo del lavoro” – quello che alcuni chiamano “partito del lavoro” – che potrebbe anche giocare un brutto scherzo a Rifondazione Comunista) il quale si candida ad essere l’anima grigia di Prodi nella leadership della nuova alleanza che rimpiazzerà l’attuale Ulivo.
[11] Senza dimenticare però i settori legati alla Margherita come il volontariato cattolico di base organizzato dalle curie, personaggi “ambientalisti” come Ermete Realacci, presidente di Legambiente, e alcuni spezzoni sindacali.
[12] ANSWER sponsorizza la campagna “Vote no war” che consiste nel votare via Internet il proprio dissenso alla guerra. “Vote now in the national anti-war referendum – VoteNoWar.org – real grassroots democracy”. (“Vota adesso nel referendum anti-guerra – VoteNoWar.org – reale democrazia di base (!?)”).
[13] Questa mobilitazione non necessariamente sarebbe (anzi, data la situazione storica, molto probabilmente non sarebbe) “rivoluzionaria” o “socialista”. L’insorgenza delle masse arabe potrebbe concretizzarsi, ad esempio, in una lotta per la conquista della liberazione nazionale contro l’occupazione americana e sionista.
[14] Solo per fare due noti esempi, Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina.
[15] Souha Béchara su Solidaire.org del18 dicembre 2002: “Hezbollah è un prodotto dell’occupazione del 1982. Ci sono due tendenze al suo interno: i riformisti e gli estremisti. Fin al 1987 è stata la tendenza estremista che sosteneva la necessità di uno stato islamico a dominare. Uno dei loro principali nemici erano i partiti laici, quindi il partito comunista. Fino al 1987 il PCL era la forza dominante dentro il campo della resistenza. Hezbollah ha assassinato numerosi quadri del PCL, perché volevano essere i soli rappresentanti della resistenza. Però è stato nel periodo in cui il PCL era il più forte che gli israeliani hanno subito le perdite più dure. Molte di più di quante ne abbiano subite negli ultimi i dieci anni. Dopo il 1987 Hezbollah ha abbandonato il progetto di Stato islamico”.
[16] Cfr, Youssef Azizi, L’Iran di fronte alla prospettiva della guerra, Arab Monitor.
[17] Non c’è bisogno di ricordare che la “guerra santa” (la jihad islamica) è stata rilanciata recentemente (dopo secoli) e fomentata dalla CIA per condurre la guerra contro l’URSS in Afghanistan.
[18] All’azione degli imperialisti.
[19] Per una analisi della crisi economica e politica dell’imperialismo e delle sue conseguenze di fase cfr. L’analisi della fase in Seminare per raccogliere, Laboratorio Marxista, agosto 2000.
(http://circoloiskra.freeweb.supereva.it/dibattito/seminare/seminare.htm)
[20] Vedi ad esempio la recente relazione presentata dal ministro Pisanu sulle relazioni tra i marxisti-leninisti e il “terrorismo islamico”.